7000 anni fa, nella costellazione del Toro, una stella smise d’esistere.
Giunta a fine vita esplose in supernova con una brillantezza pari in intensità a quella dell’intera galassia. La luce, dopo aver viaggiato per 6000 anni, giunse anche a noi terrestri.
Correva l’anno 1054, le cronache dell’epoca raccontano che quel bagliore rimase visibile di giorno per 23 dì e di notte per quasi due anni. Ancora oggi possiamo ammirare i resti dell’esplosione: li abbiamo chiamati M1 o Nebulosa Granchio, riscoprendo quella porzione di cielo nel 1721 secoli dopo gli astronomi arabi e cinesi. La nebulosa è ampia 6 anni luce e continua a espandersi alla velocità media di 1500 km al secondo.
Acquisizione della Nebulosa Granchio eseguita dal telescopio Hubble nel 2005. Crediti NASA, ESA and Allison Loll/Jeff Hester (Arizona State University). Acknowledgement: Davide De Martin (ESA/Hubble)

Ma quell’antica stella non morì veramente

Divenne invece uno tra gli oggetti più estremi dell’Universo: una stella di neutroni. Questi sono, dopo i buchi neri, i corpi più densi che esistano: se potessimo raccoglierne una quantità equivalente a un cucchiaino dovremmo sorreggere un miliardo di tonnellate. È quello che succede quando una massa di 1.5 Soli viene condensata in un diametro di una decina di km.

Ma la fisica è una bestiaccia, e alla riduzione del raggio della stella corrisponde un aumento della velocità di rotazione come conseguenza della conservazione del momento angolare. La caratteristica delle stelle di neutroni è perciò quella di ruotare su sé stesse decine o centinaia di volte al secondo (la più rapida che conosciamo arriva a 700).

Dalle stelle di neutroni alle pulsar

Le stelle di neutroni, per ragioni ancora da comprendere del tutto, emettono dei fasci di radiazione elettromagnetica convogliati su direzioni opposte seguendo i poli del campo magnetico. E non necessariamente il campo magnetico è allineato con l’asse di rotazione della stella, così il risultato è tipicamente una coppia di strettissimi fasci ad alta energia che si irradiano dal corpo ruotandogli attorno come una trottola.

Rappresentazione schematica di una pulsar. Crediti: Shutterstock

Cosa succede se un osservatore si trova lungo la direzione di uno di questi fasci? L’impressione sarà di vedere una debolissima stellina che si accende e spegne a intervalli straordinariamente regolari: una pulsar (crasi di pulsating star, stella pulsante).

La prima pulsar venne scoperta nello spettro radio il 3 novembre 1967 dalla troppo poco nota Jocelyn Bell, fornendo anche la prima evidenza sperimentale delle stelle di neutroni che sino a quel momento erano solo teorizzate. Riprendiamo a parlare di pulsar, e in particolare quella nella Nebulosa Granchio, tra un attimo.

Uno sguardo alla nebulosa

Osserviamo prima un progetto in corso dell’astrofotografo Detlef Hartmann il quale, circa ogni anno dal 2008, raccoglie un’immagine dettagliatissima di M1 integrando ore e ore di esposizione su questa piccola nebulosa.
Mettendo in sequenza le foto catturate anno dopo anno il risultato è l’evidentissima evoluzione di questo oggetto astronomico lontano da noi 6000 anni luce. Sono poche le immagini che con altrettanta potenza ci fanno comprendere quanto l’Universo non sia un luogo immutabile ma al contrario in costante evoluzione, sebbene su scale temporali quasi mai compatibili con quelle accessibili a noi comuni mortali.
Crediti: Detlef Hartmann
L’impressionante espansione è dovuta ai gas della stella esplosa in supernova che continuano ad allontanarsi dal centro della deflagrazione. Tale centro corrisponde alla posizione dove giace ora la stella di neutroni in cui l’astro originario è evoluto. L’espansione non è sferica ma parzialmente asimmetrica a causa di vari fenomeni, per esempio flussi di materiale avvenuti nel corso dell’esplosione, la rotazione della stella progenitrice o l’interazione con il mezzo interstellare. C’è inoltre l’influenza della stella di neutroni e della sua intensa emissione di raggi X, che ionizza i gas e li sagoma con i suoi venti stellari.
Al giorno dell’ultimo scatto, il 7 ottobre 2022, Detlef ha collezionato 577 scatti da 300 secondi per un totale di 48 ore e 5 minuti di esposizione. Immagini del genere vanno oltre il puro diletto, e possono essere usate per serie analisi scientifiche. L’autore per esempio ha stimato la distanza percorsa in 12 anni da un getto rivolto in direzione sud-est che sarebbe pari a 1.3 anni luce. Significa che quel gas si sta espandendo all’11% della velocità della luce! Con il suo ultimo aggiornamento del video, rilasciato il 16 marzo 2023, Detlef ha affermato che in seguito a una malattia non potrà continuare il progetto con il proprio setup che risulta probabilmente troppo impegnativo da gestire. Ma proverà a continuare a fotografare la Nebulosa Granchio con strumenti controllati da remoto.

Torniamo alla pulsar

Arriviamo così al video che mi ha impressionato e spinto a scrivere questo articolo.
PSR B0531+21 è il nome poco fantasioso della pulsar al centro della Nebulosa Granchio, ciò che resta dell’antica stella che deflagrò quasi 7000 anni fa.
Cosa succede quando un astrofotografo estremamente bravo guarda verso la Nebulosa Granchio attraverso un telescopio non professionale (se così possiamo dire) con un fotomoltiplicatore per la visione notturna e una potente camera di ripresa? Ce lo fa scoprire Martin Fiedler, astronomo amatoriale che dalla cittadina di Radebeul in Sassonia ha puntato al cielo il suo imponente telescopio dobson da 600 mm.
Il telescopio da 600 mm di Martin Fiedler!
La giovane stella di neutroni al centro della nebulosa (posizionata nel video leggermente in alto e vicina ad una stella fissa) rivela la sua natura attraverso un lampeggiare inconfondibile: davanti a voi si mostra una pulsar in rotazione con periodo esattamente di 33,781965 ms. Questo preciso intervallo è scandito dalla ripetizione della sequenza del lampo principale seguito da uno più debole opposto in fase, il cosiddetto interimpulso. È molto raro osservare una pulsar che presenti anche l’interimpulso, avviene solo per circa il 2% di quelle che conosciamo. La spiegazione tuttora accettata è che ciò richieda una particolare geometria con quasi perfetta ortogonalità tra asse di rotazione e direzione del fascio, consentendoci di osservare quest’ultimo provenire da entrambi i poli magnetici.
Se l’angolo α è molto vicino a 90° si verifica la condizione per osservare l’interimpulso. Crediti: Patrick Weltevrede e Simon Johnston
A livello tecnico è molto complicato vedere questa pulsar che ha magnitudine 16.5 (meno luminosa di Plutone) e ancora meno facile è vederla lampeggiare, tipicamente prerogativa per grandi telescopi professionali e per occhi capaci di vedere fugaci lampi a 30 Hertz. Questa è la ragione per cui le pulsar, e questa in particolare, sono sfuggite per decenni alla rilevazione visuale con solo alcune prime, incerte, testimonianze negli anni ’50 del secolo scorso che venivano però scambiate per scintillamenti stellari.
Martin Fiedler è dovuto ricorrere a strumentazione estremamente raffinata e una meticolosa elaborazione dell’acquisizione, che da ingegnere elettronico ho apprezzato tantissimo.

Come si è svolta la ripresa

Tanto per iniziare gli astronomi sanno che la durata dei singoli lampi generati da questa pulsar è di 5 ms, quindi questo è stato il tempo di esposizione massimo che Martin poteva permettersi per immortalarli. Tuttavia un telescopio da 24″, un fotomoltiplicatore e una camera raffreddata a -40° con la sensibilità al massimo non sono sufficienti a rilevare la pulsar con tempi di esposizione così brevi. È stato perciò necessario ricorrere alla tecnica di sommare più fotogrammi sia per mediare il rumore digitale (quello che nella fotografia analogica chiameremmo grana) che per esaltare i pixel con segnale utile.
Ulteriore problema di questo approccio è che stiamo cercando di fotografare una scena dinamica, in cui ogni fotogramma è variabile. Non possiamo quindi sommarli a caso ma serve trovare all’interno del ciclo di 33.78 ms quelli che mostrano la stessa “scena”.

Proviamo a capirlo con un esempio

Immaginate di fare un video a una girandola che ruota.
Ogni fotogramma congela la scena, immortalando i lobi colorati in una posizione diversa.
Sappiamo che il movimento è ciclico, ci saranno quindi dei fotogrammi che tenderanno a ripetersi molto simili tra loro e che possiamo raggruppare.
Quanti gruppi? Beh dipende dalla risoluzione temporale che vogliamo garantire: tanto maggiore è il dettaglio desiderato tanto più i fotogrammi dovranno essere uguali tra loro.
Se è nota la velocità con cui la girandola ruota possiamo eseguire il lavoro di raggruppamento dei fotogrammi senza guardarli uno per uno ma basandoci sull’istante di acquisizione.
Esempio: se la girandola fa un giro ogni 330 millisecondi significa che fotogrammi distanziati tra loro di 330 ms saranno identici e possono andare nello stesso gruppo.
Nella realtà, a conti fatti, non è detto che il frame rate e il tempo di esposizione siano esattamente sincronizzati con la periodicità del fenomeno che stiamo osservando. In questo esempio sto semplificando e facendo in modo che sia così.
Il video dell’esempio è girato a 30 fps e grazie alla frequenza di rotazione di 3 cicli al secondo. Si riscontra quindi una periodicità esattamente di 10 frame e possiamo suddividere i fotogrammi in 10 gruppi.
Per una girandola è facile.

Ma per una pulsar?

Il video grezzo dell’acquisizione è praticamente incomprensibile. Eccone qui sotto un frammento rallentato che, a velocità reale, durerebbe circa 3 secondi.

Lampeggi apparentemente casuali e tantissimo rumore digitale.
L’intuizione di Martin è stata di sfruttare un’avanzata funzionalità di temporizzazione basata sul GPS offerta dalla sua camera di ripresa, il che gli consente di assegnare ogni fotogramma sulla scala dei tempi con una precisione potenzialmente sino al microsecondo.

Approssimando a un millisecondo la sincronizzazione sul periodo della pulsar (la risoluzione temporale che ho nominato nell’esempio della girandola), Martin ha ottenuto 34 gruppi di fotogrammi. Grazie alla tecnica del lucky imaging ha così potuto sommare i frame di ciascun gruppo migliorando incredibilmente il dettaglio per distinguere, spazialmente e temporalmente, una stella di neutroni che lampeggia a 6000 anni luce da noi.

La pulsar è il punto leggermente spostato a sinistra e in alto rispetto al centro del video, con i due lampi di differente intensità che rappresentano impulso e interimpulso.
Fonti:
https://thesis.unipd.it/handle/20.500.12608/23812?1/Tesi_L_Boscolo_Marco.pdf
https://pos.sissa.it/099/014/pdf

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